La psicologia dello sport comincia a diffondersi alla fine dell’ottocento, quando l’interesse scientifico volge allo studio della prestazione degli atleti.
Parallelamente all’affermarsi del nascente sport moderno si fa strada la convinzione che in una prestazione sportiva sono coinvolti oltre l’attività muscolare e il sistema articolare anche l’attività del Sistema Nervoso Centrale, è facile quindi comprendere la ragione che ha portato alla nascita di questa disciplina che ha acquisito nel corso degli anni sempre più legittimità scientifica. Oggi, la psicologia dello sport è una scienza, nella quale confluiscono diverse discipline, che trova campo d’intervento anche nella relazione tra sport e benessere individuale e sociale.
Sebbene, già nell’antica Grecia, esistesse la consapevolezza che la prestazione di un atleta dipendesse tanto dalle sue qualità fisiche quanto da quelle mentali quali coraggio ed emozioni, solo verso la fine dell’ottocento e inizio novecento si registrano le prime attività di studio e ricerca di carattere psicologico riguardo gli atleti, che culminano con l’evento che rappresenta la nascita ufficiale della Psicologia dello Sport: il “Congress of Psychology and Physiology of Sports”, (1913) ad opera del francese Pierre de Coubertin.
De coubertin, il primo in assoluto ad utilizzare già in un suo articolo del 1900 il termine psicologia dello sport, considera lo sport un’attività tipicamente umana, guidata da processi psichici (emozioni, motivazioni) che possono essere allenate tanto quanto la capacità fisiche. Egli, attribuendo chiaramente alle qualità mentali dell’atleta un’importanza maggiore rispetto a quelle fisiche, anticipa un principio fondamentale che solo molto più tardi verrà riconosciuto dal mondo sportivo. La sua vasta produzione scientifica influenza di sicuro lo sviluppo della disciplina.
A De Coubertin viene attribuito il famoso motto, “l’importante non è vincere ma partecipare”. In realtà, la famosa frase, in origine più lunga, viene pronunciata dal vescovo Ethelbert Talbot, della diocesi episcopale della Central Pennsylvania in occasione dei Giochi Olimpci del 1908: “Nei Giochi uno solo può cingersi della corona d’alloro, ma tutti possono provare la gioia di partecipare alla gara”.  Con essa, il vescovo intendeva lodare il vincitore dell’alloro olimpico e, contemporaneamente, esaltare coloro che avevano avuto l’ardire di partecipare ai giochi. De Coubertin ripropone qualche giorno dopo la frase, dandone un’interpretazione che maggiormente si avvicina alla sua concezione di sport. Il concetto era più o meno lo stesso, de Coubertin ha comunque il grande merito di condividerne la sostanza e soprattutto di averlo divulgato facendo però trasparire nella sua opera e nei suoi scritti il vero significato di “partecipare”. Per De Coubertin, la vittoria è di fondamentale importanza, ma l’impegno dev’essere proiettato verso il superamento del proprio limite: “l’importante nella vita non è trionfare ma combattere, non è vincere ma essersi ben battuto; lo sport è prima di tutto lotta dura per la vittoria, ambizione e volontà di fare più degli altri, deve tendere verso l’eccesso perché richiede più velocità, più altezza, più forza; cerca la paura per dominarla, la fatica per trionfarne, la difficoltà per vincerla”. Egli intuisce il pericolo che comporta l’agonismo, prevede che inevitabilmente la ricerca della vittoria può facilmente diventare antagonismo e rivalità contro la propria cultura, la propria nazione: “essere il migliore è superiore agli altri”, per De Coubertin non è un incitamento alla rivalità, è un’incitazione al superamento di se stessi; il confronto e la competizione sono fondamentali e necessari per misurare le proprie capacità, per migliorare e perfezionare il proprio limite, ma altrettanto fondamentale è il rispetto del valore dell’altro e il fair play. L’atleta, pertanto, deve essere educato e allenato ad avere grande energia, calma e controllo di se stesso.
L’ambizione, la volontà e la determinazione sono una costante nel pensiero di De Coubertin, elementi fondamentali per conseguire il risultato sportivo, ma anche per contrastare la deriva di valori verso cui sono proiettate le nuove generazioni, infatti, riconosce allo sport un alto valore educativo per la formazione e il perfezionamento umano, da non limitare alle sole attività agonistiche, ma che deve costituire una componente essenziale anche nei programmi scolastici.
De Coubertin, animato dalla sua concezione pedagogica e l’amore verso il classicismo, riesce a far rivivere le olimpiadi antiche portando a termine un progetto dove altri prima di lui avevano fallito; intuisce che l’obiettivo non è la semplice trasposizione di modelli, riti e usanze dei giochi antichi, ma la riscoperta e la diffusione dello spirito e della filosofia generale che li caratterizzava. Egli, pertanto, riesce ad idealizzare e incarnare gli ideali sportivi che fino ad oggi contraddistinguono questo appuntamento diventato universale e secolare raccontando la sua idea basata su due punti: una manifestazione sportiva che rappresenti il simbolo della fratellanza universale, che rievochi i principi ed i valori dei giochi antichi attraverso gli sport moderni.
Tra gli scritti citiamo: Essais de psychologie sportive (1913) e la più importante Pédagogie sportive (1922).
Oggi, De Coubertin è considerato universalmente il padre delle olimpiadi moderne, ma molti ignorano il suo vero impegno per la pedagogia e le sue intime convinzioni. Molti, infatti, ignorano o conoscono solo superficialmente il suo pensiero che è stato spesso fonte di malintesi. Viene additato come apostolo del concetto ambiguo di dilettantismo, ma dai suoi scritti (Mémoires olympiques) emerge come fosse, in realtà, un compromesso che accetta senza una convinzione reale, data l’importanza che veniva attribuita dagli anglosassoni alla nascita del movimento olimpico, come condizione per convocare quel congresso destinato a ridar vita ai Giochi Olimpici. Scrive ancora nelle sue memorie olimpiche: “lo sport è un sentimento religioso ed è infantile legarlo al fatto che un atleta ricavi qualche soldo dalle sue fatiche…”.
Per l’aristocratico De Coubertin lo sport moderno non deve fare l’errore di tenere fuori dalle arene le classi meno abbienti come avveniva nell’antichità.  Convinto sostenitore dello sport come strumento di formazione dei giovani, futuro della società, sostiene che sulla linea di partenza di una gara conta solo la meritocrazia.
De Coubertin, pertanto, guarda sempre allo sport come a un grande ideale di vita e come a un potente strumento per favorire la democrazia e l’instaurarsi di rapporti più civili tra le nazioni… in sintesi, un mezzo di sviluppo muscolare ma soprattutto di perfezionamento morale.

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Di salvin